Le più antiche testimonianze archeologiche nel territorio dell’attuale comune di Vaglio Basilicata sono databili alla metà del VI millennio a.C. e provengono dalla località Ciscarella.
Nello stesso sito le tracce di antichi insediamenti umani risalgono, invece, all'Età del Bronzo Medio e riflettono l’appartenenza dell’area alle culture più diffuse nel resto della Penisola.
Nel periodo compreso tra l’VIII ed il VII secolo a.C., come accade sulla maggior parte delle colline dominanti i grandi fiumi lucani, in località Serra San Bernardo gruppi di pastori, che praticano un’agricoltura di sussistenza, costituiscono un vero abitato di capanne in argilla pressata.
Le relazioni culturali determinate dalla fondazione delle colonie greche sulla costa ionica, spiegano la presenza di manufatti bronzei etrusco-campani, di vasi ceramici e di oggetti in avorio e in ambra nei corredi funerari contemporanei rinvenuti a Vaglio. In particolare, i più recenti scavi in località Braida hanno riportato alla luce i resti di una ricchissima necropoli, che restituisce ceramiche ed armi, quali elmi, scudi e schinieri di provenienza corinzia, insieme a spade in ferro di tipo italico. A Rossano, invece, viene eretto un santuario federale dedicato a Mefite, divinità femminile delle acque.
L’archeologia a Vaglio ha coraggiosamente intrapreso le iniziative più all'avanguardia, la “casa dei pithoi” è stato il primo esempio di archeologia sperimentale nell’Italia meridionale.
Si tratta della ricostruzione volumetrica di un’abitazione databile al V secolo a.C., entro il cui perimetro è visibile la complessa stratigrafia del sito a partire dall'VIII sec. a.C.
La divisione degli ambienti rispetta la risistemazione d’età lucana, che prevede un vano di ingresso, una stanza con focolare e telaio ed un deposito per quattro grandi contenitori di derrate alimentari (pithoi).
In linea con la più avanzata concezione di museo territoriale, che punta alla conoscenza e valorizzazione delle risorse locali, nell'agosto 2006 a Vaglio è stato inaugurato il “Museo delle Antiche Genti Lucane”. L’esposizione offre a scopo didattico le ricostruzioni, virtuali e a grandezza naturale, dei principali contesti archeologici con le fedeli riproduzioni dei materiali, che aumentano l’accessibilità e la fruibilità del patrimonio culturale.
Inserendosi nel sistema museale regionale attraverso una fitta rete di collegamenti tematici, il Museo di Vaglio integra il percorso nei siti archeologici di Serra e Rossano, secondo quella che è l’idea corrente di “museo diffuso”.
Il santuario della dea Mefite era un importante luogo di culto che vide nel II secolo a.C. una imponente ristrutturazione, legata alla presenza romana nel territorio, e rimane attivo fino alla prima metà del I secolo d.C.
Le numerose iscrizioni in esso ritrovate testimoniano una straordinaria osmosi culturale, paragonabile a quella che si evince dalle pitture funerarie lucane di Paestum. La scrittura, infatti, spesso è greca, la lingua utilizzata è osca, le istituzioni menzionate sono tipicamente romane, seppure con una forte connotazione identitaria lucana.
Nel settembre 2007 sono riprese le indagini archeologiche nel santuario di Rossano di Vaglio, a cura della Soprintendenza Archeologica della Basilicata, sotto la direzione di Marcello Tagliente, e in collaborazione con la Scuola di Specializzazione in Archeologia di Matera, con il coordinamento del prof. Emmanuele Curti; parimenti è stato avviato uno riesame complessivo dei materiali degli scavi Adamesteanu, a cura del prof. Massimo Osanna. Il progetto di scavo ha perseguito due obiettivi principali:
1) definire, con maggiore puntualità, le diverse fasi di vita del complesso;
2) verificare la presenza di strutture riferibili alla fase più antica di vita del santuario fra IV e III sec. a.C., sinora attestata esclusivamente dagli ex-voto e dalle iscrizioni.
Lo scavo ha riguardato in particolare l’area dell’altare e del lastricato centrale, e l’area meridionale interessata da una serie di ambienti.
Il pianoro centrale dell’antico insediamento di serra è generalmente assimilato ad un’acropoli, la parte più alta della città greca. Tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C., in questa area l’organizzazione dello spazio urbano si articola grossomodo lungo una strada principale, che corre in senso est-ovest, pavimentata con larghe basole ed intersecata da strette stradine perpendicolari, sulle quali si affacciano le abitazioni. In quest’area, alla metà degli anni sessanta del secolo scorso, si è intervenuti con un imponente sterramento, per riportare alla luce i muri delle abitazioni. Gli enormi cumuli così composti sono stati successivamente spietrati recuperando numerose terrecotte architettoniche, che hanno consentito una migliore comprensione delle tecniche edilizie utilizzate nel sito. In particolare, le antefisse hanno permesso di ipotizzare una copertura del tetto di tipo pesante, atta a sostenerle, come si vede nella ricostruzione sperimentale della casa dei pithoi, almeno per la fase databile al IV secolo a.C. Precedentemente gli edifici erano a pianta rettangolare con poche divisioni interne e un muro perimetrale a secco che comprendeva un cortile scoperto, assieme agli ambienti coperti. Vi erano inoltre edifici a nord e a sud dell’asse stradale, non necessariamente orientati con esso, e negli spazi scoperti comuni sono state trovate tracce di attività artigianali. L’insediamento arcaico viene distrutto da grossi incendi e dalla prima metà del IV, fino al primo venticinquennio del III secolo a.C., sull’acropoli si registra un sovraffollarsi di edifici ed un riutilizzo intensivo degli spazi scoperti, invadendo in parte anche l’asse viario centrale per la costruzione di nuove strutture e creando un complesso sistema di canalizzazione.
La cinta muraria, edificata in piena fase di occupazione lucana del sito, ovvero nella metà del IV secolo a.C., corre lungo circa 2,5 km, seguendo le curve di livello, su almeno tre fianchi della montagna. Essa è costituita da due cortine parallele, inframezzate da un riempimento di terra, pietre e materiale di riporto. Il paramento esterno è realizzato con grossi blocchi squadrati di pietra arenaria locale, talvolta recanti lettere dell’alfabeto greco, interpretabili come segni di cava o come indicazioni utili alla collocazione nelle assise di costruzione.
In questo tratto nord-occidentale, restaurato, si apriva una porta monumentale realizzata con la stessa tecnica costruttiva delle mura. Inizialmente essa presentava un vano a pianta rettangolare allungata a doppia apertura, con soglia e cardini, su cui si impostava la porta lignea a tre battenti. In seguito il vano fu ristretto a corridoio con la creazione di due vani laterali, con una riduzione della porta a due battenti.
La porta monumentale orientale fu scoperta dopo quella nord-occidentale. Entrambi gli ingressi alla città sono caratterizzati dalla tecnica di costruzione del tutto simile a quella della fortificazione, come dal restringimento del vano iniziale e della porta lignea da tre a due battenti, avvenuto verso la fine del iv secolo a.C., pochi decenni dopo la prima costruzione. Quel che distingue le due porte è la presenza in quella orientale di una pavimentazione in fitto basolato e di probabili gradini per via della maggiore pendenza di questo versante della montagna. Presso questa porta è collocata la riproduzione di una epigrafe in lingua e caratteri greci che menziona un magistrato lucano, nummelos, il quale avrebbe commissionato l’intera opera di fortificazione, probabilmente nel momento in cui si cominciava ad avvertire il pericolo romano, lo stesso che agli inizi del secolo successivo determina la fine violenta della città.
Gli scavi condotti agli inizi del XXI secolo hanno riportato alla luce un altro tratto della fortificazione in blocchi isodomi, lungo circa 50 m, che in antico ha subito le conseguenze di un importante fenomeno franoso. Parallela ad esso correva una cortina interna, realizzata sfruttando un muro precedente (V secolo a.C.). Questa fortificazione costituiva anche il muro perimetrale di alcune abitazioni coeve . Viene dunque attestata anche per la fase precedente, di V secolo a.C., la presenza di case costruite in prossimità della contemporanea fortificazione, forse a scopo difensivo. Questo è quanto avviene anche un secolo più tardi, come dimostra il rinvenimento di un’abitazione presso la porta nord, che sembra anche sfruttare blocchi della fortificazione di metà IV secolo a.C.
Il pendio della collina di San Bernardo, denominato Braida, sembra essere occupato a partire dal primo quarto del VI secolo a.C. Qui negli anni sessanta furono rinvenuti frammenti di statue acroteriali e di lastre fittili a rilievo dipinte, che rivestivano e decoravano le travi del tetto, le lastre dei cavalieri. Tale circostanza, unita al ritrovamento negli anni novanta di nove corredi funerari, databili tra la fine VI ed il V secolo a.C., riferibili al gruppo eminente della comunità locale, quello dei basileis (parola greca che significa: i re), ha fatto pensare alla presenza di un complesso palaziale, con funzioni non solo residenziali, ma anche sacre e politiche.
Sulle pendici del monte Giove, non lontano dal paese, si erge isolata l’antica “neviera”, una delle più importanti testimonianze storiche del Comune di Vaglio Basilicata. Tale manufatto si compone di due corpi di fabbrica affiancati a forma circolare: la prima, quella dal diametro maggiore, è quasi completamente interrata fino a nove metri di profondità, la seconda più piccola presenta delle strutture in elevazione simili a quelle delle antiche torri. Le strutture di copertura sono completamente scomparse e i due manufatti sono tra loro comunicanti tramite una apertura ad arco. Le “neviere” sono dei pozzi tronco-conici con muratura perimetrale in pietra grezza, profondi in media cinque o sei metri e con diametro fino a dieci metri, che vennero per lungo tempo adibite a deposito della neve destinata al consumo durante il periodo estivo. Sappiamo da fonti storiche che tra la metà del XIV secolo e la fine del XIX, l’uso del refrigerante naturale era molto diffuso sia per la conservazione dei cibi deteriorabili, e sia come terapia del freddo contro determinate patologie. La neve, trasportata a spalla fino alla neviera, una volta introdotta nella fossa veniva battuta e costipata strato su strato, quindi coperta con fogliame secco e da una tettoia conica mobile; tra la struttura di copertura e lo strato di foglie si creava un’intercapedine termoisolante che permetteva la conservazione della stessa fino all’estate. Furono soprattutto le famiglie nobili e dell’alta borghesia che, durante il XVII secolo alimentarono un florido commercio del refrigerante naturale. Il commercio della neve, oltre ad appagare le richieste della nobiltà, doveva soddisfare anche le richieste di commercianti, ospedali, conventi ecc., divenendo talmente lucroso da giustificare l’applicazione di un’imposta. Inoltre si può ipotizzare che il secondo corpo di fabbrica della neviera di Vaglio, ovvero la torre, potesse avere funzione di “guardiania” a protezione del ghiaccio stesso.
Attualmente dell’edificio sono in luce i resti di un vano rettangolare di 290 mq, delimitato da blocchi di calcare grigio e in parte pavimentato da larghe basole piatte di calcare bianco.